Nella scia di una Supernova

Cinque giorni di Salone del Libro hanno fatto tornare la primavera a Torino, come se non fosse accettabile che per questa impresa, di chi l’ha voluta e organizzata e di chi l’ha condivisa andandoci, ci tenessimo addosso il freddo di un ottobre grigio. Per raggiungerla, questa supernova, ho preso il treno, quello dei pendolari, degli studenti, un mezzo a volte scomodo e spesso ritardatario, che però per me contiene comunque in ogni vagone e nel mondo che pur conosco bene visto scorrere attraverso il finestrino, l’esotica rappresentazione del viaggio. Ferma alla stazione di Trofarello ho avuto la frastornante sensazione di risvegliarmi in quel momento nel mondo preciso lasciato un anno e mezzo fa, prima che ci ritirassimo in casa per una pandemia per nulla distopica. Varcare la soglia dell’Oval, scorrere accanto ai box per l’accredito degli addetti stampa, intravedere il Salone prima che scoccassero le dieci, è stata l’emozione rinnovata di un’attesa famigliare. Entrare, un tuffo entusiasmante: in effetti la moquette azzurra per me quest’anno è stato l’unico mare goduto. Tutto nuovo di zecca, alle dieci di giovedì: le vetrine dei punti informazione avevano ancora la protezione in cellophane blu. Mi piace pensare che i miei piedi abbiano consegnato i primi passi (forse) ad alcuni stand prestigiosi: sicuramente Rizzoli, ma credo pure Adelphi e Feltrinelli. Gli addetti potevano ancora permettersi di vagare come api sazie e i dispenser erano colmi di igienizzante. Aleggiavano, li ho percepiti, gli spiriti silenti di Roberto Calasso e Inge Feltrinelli, anche se era comunque offerto il beneficio di rimirarli dentro le loro gigantografie. Ma il Salone per me, da lettrice onnivora, è sempre stato la possibilità di conoscere e riconoscere quelle piccole case editrici che fanno bello il paesaggio dei libri. Per il fatto che siano spesso poco note, non vuol dire che non ve ne siano alcune che fanno particolarmente bene e con passione il proprio mestiere. Hanno il fascino dei paesi arroccati, che sono altrettanto belli quanto le grandi città, anzi spesso maggiormente, rappresentando qualcosa di persino più prezioso: un presidio della cultura e del libro in un terreno che non sarebbe magari altrimenti vissuto, e che per il solo fatto di esistere, con tutto ciò che per loro comporta, garantiscono la pluralità delle idee e affermano la libertà di scelte abbracciate fuori dalle logiche di mercato, ma non della qualità. Che pubblicano anche chi non è calciatore o influencer, ma ha buone storie da raccontare, promuovendo fra i pensieri dei lettori che danno loro fiducia, la collocazione di opere che faticano a essere collocate nelle librerie. Bisogna davvero crederci in quello che si fa quando non si ha la forza dei grandi gruppi e non si può godere degli stessi scenari culturali, della medesima esposizione mediatica, di pari canali di distribuzione. Crederci e faticare. Li capisco. Io stessa, nel mio piccolo, nel modo che ho di stare al mondo da scrittrice e narratrice, ci credo e fatico. Nei giorni di Salone ho camminato a dismisura consumando metatarsi e suole, e credo di essere anche dimagrita per inseguire la mia non più tanto piccola Signorina G, libri da scovare, incontri da seguire, appuntamenti, progetti e sogni.

Ci sono state cose diverse, è vero, la mascherina, il green pass, le prenotazioni degli eventi, ma altre non sono proprio cambiate, ne dirò alcune: la fila in bagno, il dolore alle anche per il passo del cammello che si prende quando ci si consuma nella ricerca e nella consultazione dei libri, la (mia) ammirazione per le donne con i tacchi (rare, ma presenti). La bellezza di imbattersi in personaggi noti che generalmente la distanza di una supernova da me conservano. Uno su tutti Drusilla Foer, esuberante, maestra di portamento, linguaggio graffiante, che sentirla cantare mi ha incantato anche di più. Fra gli autori scovati in momenti non istituzionali, Helena Janeczeck seduta sulla panca di un punto ristoro, stanca. L’ho salutata. Con la mascherina, probabilmente l’ha capito dai miei occhi, che la stavo salutando. È rimasta sorpresa, si sarà chiesta se mi conosceva, ma il mio era solo un saluto, e le si è acceso lo sguardo. Fra le personalità degli incontri che ho seguito, una figura che ammiro smisuratamente: Loredana Lipperini, la quale, standomi nelle orecchie da una vita, è voce e parole di un’amica di famiglia, ma vederla all’opera regala innumerevoli insegnamenti.

Nel movimento incessante della gente, Nicola Lagioia, capelli alla Tintin, godendo forse del dono dell’ubiquità, ma più probabilmente di un passo molto elastico, riusciva a trovarsi quasi in ogni dove. Ha esordito il primo giorno con un completo in stile Pulp Fiction, ma una significativa evoluzione l’ha condotto a sfoggiare alla fine, sotto la giacca, una t-shirt rosa. Girava appeso alla sua sacca di stoffa del Salone dentro la quale forse teneva fogli di appunti, la borraccia per non crepare di sete e qualche caramella Goleador per rimpinguare gli zuccheri. Un direttore così, che dà la stessa attenzione a Houellebecq e a un ragazzo addetto di sala a cui batte il cinque salutandolo, ditemi quello che volete, a me piace. Mi fa credere in qualcosa di buono, mi fa credere che sia realmente possibile che il mondo culturale non resti scollato dalla gente. Ed è una faccenda alla quale io tengo particolarmente, perché proprio non dovrebbe essere altrimenti.

C’è chi si è lamentato dei controlli agli ingressi. Chi si è lamentato dei disservizi sulle prenotazioni degli incontri. Chi si è chiesto (giuro, l’ho sentito con queste orecchie): ma Aldo Cazzullo, quanti libri scrive? Qualcosa non ha funzionato, è vero, e non mi riferisco a Cazzullo, ma mettere in piedi e far andare avanti una macchina così complessa in questo periodo così difficile, ne converrete, non era facile per niente.

Il Salone del Libro è una rappresentazione piuttosto fedele del mondo editoriale e culturale italiano: c’è di tutto. E credo che, al di là di certe distanze snobistiche ancora palpabili, al di là di certi steccati che qualcuno determinatamente pone proprio per creare e difendere il diritto di proprietà, ci sia anche lo spazio per confidare in un concetto al quale tengo moltissimo, e al quale dovrebbero tenere in particolare scrittori e lettori: il concetto di comunità.

Il Salone del Libro di Torino è stato voluto da chi lo ha pensato e organizzato, ma anche da chi ci è andato, voglio sottolinearlo.

Tornare è stato bello davvero. Per dirla con le parole di una ragazza senza tacchi, passo del cammello come il mio, che transitava in una corsia con un panino in mano e una sacca piena di libri nell’altra, raccontando a qualcuno le sue impressioni dentro il microfono degli auricolari, è stato come tornare al mare dopo tanto tempo.

Dalla scia della Supernova è tutto.

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