Le mie conchiglie

Di questa lunga estate, sospesa fra mancanze e attese, conservo molte cose preziose. Alcune le ho sistemate fra queste righe, come conchiglie prese dalla battigia lucida e riposte in un vasetto vuoto di marmellata.

I bambini in cortile. Nelle serate di giugno specialmente, lunghe tanto che quelle di novembre sembrano una bugia, li ho sentiti bisticciare, cacciare urli, li ho visti gonfiare il collo di vene d’odio cieco per i torti marci subiti e nel tempo di un respiro dimenticare tutto, odio e gioco, recuperare amicizia e vista senza bisogno di miracoli. E correre dentro l’aria calda, sudati di felicità, svuotando di risate i polmoni, assetati e sfiniti eppure mai fermi, a costruirsi i ricordi senza saperlo.

I libri che ho mietuto affamata per trovare un po’ d’altrove, per farne del pane nutriente.

Camilleri, che per me non è andato via e se ne andrà solo con me, l’ho scoperto bambino, bianco e nero, in una foto di un libro che mi è diventato un amico dei più cari. Piccino, con gli occhi nuovi di zecca, e fra quelle pagine che mi sono volate fra le dita ho sentito precisa, santo Calogero ti ringrazio, proprio la sua voce, con le pause sue, e ho rivisto certe movenze del busto che ho memorizzato per le interviste su YouTube, potessi dire diversamente, ma non posso, e del braccio appoggiato alla scrivania, la mano che scende disegnando un semicerchio, gli occhi appizzati all’orizzonte senza vederlo, dal quale sfila uno a uno racconti appassionanti della vita goduta intensamente.

Vinicio Capossela mi ha fatto la solita grazia di tirare fuori il suo grandioso teatro di parole scelte e di rocambolesche visioni, parcheggiandomi dentro casa un carrozzone di meraviglie polimorfe e di sirene, bestie, canzoni a manovella, canzoni suonate con pianoforte e molteplici strumenti, certuni surreali.

Verona con Giulietta dal lucido seno palpato per opinabile usanza da tutte quelle mani di ogni dove, ma non dalla mia. Il balcone, la scatoletta di pietra che è stata la sua ultima dimora. E l’ombra di Dante in piazza dei Signori sotto cui stare per un attimo a tirare il fiato, godendo di ciò che era attorno e della comodità di un improprio sedile in pietra. L’Arena bianca proprio come una conchiglia, con dentro Roberto Bolle a ricamare l’aria balzandoci dentro a piacimento, perché non è sufficiente riprodurre la tesa perfezione di una statua, per dichiarare talento. Tutt’attorno a lui, che non accusava nausee e malori, il che mi fa pensare che un grande ballerino possa essere anche un buon marinaio, stava proprio un mare di gente e di minuscoli lumi che all’imbrunire hanno vibrato come lucciole, divorandomi le pupille. E le ho lasciate fare.

Torino dei musei sotto il sole torrido, camminando sui marciapiedi in una fila di due, ma ridendo per cento, quando anche prendere il treno per Porta Susa è sembrato già un viaggio e il refrigerio scuro di una mostra sulla Luna sistemata dentro spazi di una certa antichità, sopra un pavimento trasparente che per qualcuno che ho visto aggirarsi fra i quadri e le foto, è stato affascinante più della Luna, in qualsiasi rappresentazione.

Le stelle cadenti cercate nel cielo d’una notte d’agosto, trovando invece ricordi, su quella volta impermeabile alle richieste di desideri, scie lattiginose di stelle già cadute in un tempo non molto distante, già godute nell’aria fredda di un prato che stava più vicino alla Luna.

La mia casa, nei pomeriggi di canicola feroce, quando chiudevo le persiane in faccia alla luce, ogni camera satura di indaco bellissimo, come stare nella penombra di certe stanze sudamericane di Gabriel García Marquez.

E il mare. Quella sua luce schietta che ogni volta mi fa pensare, ne ignoro la ragione, che potrebbe esserci in ogni istante, la possibilità di un’altra vita. Una luce più viva di quella che abbiamo qui fra le colline che pure amo, sopra la terra scura, e che mi provoca con la menzogna che certe cose umane abbiano un altro peso, dentro una luce come quella, e mi fanno provare invidia per chiunque viva accanto a quell’acqua, granchi compresi. Non so cosa sia stato, se l’odore salmastro annusato avidamente in cerca di estasi o la schiuma appena toccata con la punta dei piedi, questa volta il mare mi ha sorpreso con un sortilegio, e perciò mi ci sono buttata come mai ho fatto nemmeno da bambina, quando invece avevo paura di tutto. Mi sono immersa ogni volta con il desiderio di stare libera e sospesa, con la smania di frugare il fondale, di cercare tesori. Ho afferrato per questo più volte la sabbia a manciate e tornando su a prendere fiato, l’ho osservata colare giù dal palmo che restava vuoto. E dopo ho capito che fare quello era il tesoro. Ho trattenuto il respiro sbirciando gli scogli dentro l’acqua scura, inseguendo con la mano piccole occhiate nervose, sgargianti d’argento, per tentare un’improbabile carezza, e non perdevo mai l’ostinazione di inseguirle, ma l’aria sì. Affidando il corpo molle a quel liquore salmastro mai stanco, proprio come i bambini che giocano in cortile, ho preso in faccia tutto il cielo che potevo, a braccia larghe, senza filtri protettivi contro il blu, ascoltando il mio fiato ovattato, i suoni camuffati dall’acqua nelle piccole caverne delle mie orecchie allagate, e dopo le nuotate del mattino ho gustato colazioni saporite a base di pizza rossa e gocce salate che mi correvano sulle guance in cerca della bocca. Alla fine della giornata, mentre tutti se ne andavano rimpinzati di sole, me ne stavo sugli scogli ad attendere il tramonto, sera dopo sera, e proprio non mi veniva difficile capire la smania di un piccolo principe con i capelli colore del grano, che un giorno ha spostato addirittura quarantatré volte la sua seggiola per guadagnare ancora un tramonto. Tuttavia non è detto che si debba essere tristi, per amare i tramonti. Non è detto. Magari si ha solo una tale fame di bellezza che la si cerca ovunque. Per esempio nei tramonti, nel mare, nella luce del mare, nelle occhiate argentate, in tutti i toni del blu, nella pizza rossa, nella penombra di García Marquez, nelle strade sotto il sole, nei musei torinesi, fra le antiche pietre veronesi, nella danza di Bolle, nelle stelle cadenti immaginate, nella musica di Capossela, nelle pagine dei libri, nelle storie di Camilleri, nelle parole, nelle risate dei bambini, nella mancanza di qualcuno che si ama.

E nelle conchiglie.

 

 

 

 

 

 

 

 

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