Caro OdB

Caro OdB, spero di non offenderti se oso il pronome della familiarità, ma è per l’amicizia che sento. Sono passati più di vent’anni dalla prima volta che ti ho scritto.

Erano gli anni in cui curavi per La Stampa “Lettere a OdB”, una rubrica dedicata ai lettori che ti rivolgevano riflessioni e domande sulle questioni più disparate. C’era un disegno di Pericoli, nel riquadro del tuo spazio, indimenticabile: ti rappresentava in cima a una torre di libri, con la testa ficcata dentro il francobollo di una busta, le mani incrociate dietro la schiena. Rendeva giustizia alla tua ironia.

Mi indusse a scriverti una questione sulla quale volevo ricevere il tuo parere esperto: il desiderio di scrivere. Per l’esattezza di farmi leggere. E non sapevo come arrivarci, che pesci pigliare: non avevo nessuno più o meno accanto, che mi desse consigli, sulla stessa scrittura. E non erano tempi dello storytelling, delle scuole, dei corsi. Nemmeno all’Unitre, e loro scherzano mica. Come dice Erri De Luca, per imparare ho guardato come facevano gli altri: ho letto, divorato libri. E ho anche ascoltato musica e canzoni, guardato film e quadri. Ho cercato di capire i meccanismi, di imparare in questo modo molto antico. E tutti i giorni imparo.

Presi un foglio e ti scrissi.

La tua risposta, te ne sono ancora grata, giunse recando luce: mi svelasti il tuo consiglio. Il metodo che tu stesso utilizzasti.

E stava in poche parole.

Chiarissime.

“Scrivi e manda”.

Così feci, caro OdB.

Mi misi in gioco come suggerivi: la strada dei concorsi letterari era l’ideale. Per un certo periodo, tuttavia, non ho applicato il metodo con adeguata dedizione: ero presa da quelle cose che nella vita urlano precedenza su tutto e se la prendono. Una di quelle cose che urlavano, l’ho persa tre anni fa, il lavoro: crisi economica, azienda chiusa. È una faccenda bizzarra perché non si tratta di perdere una persona a cui vuoi bene, non è un lutto di tale gravità, ma è una perdita anche quella. Proprio di una parte di se stessi, quella che si consegna con le generalità presentandosi a qualcuno, in un meccanismo un po’ fuori luogo ma ampiamente consumato, in cui d’abitudine nella nostra società ormai facciamo coincidere la professione con l’essere, il mestiere con la persona: “Buongiorno, sono Cappuccetto Rosso!”

Ti licenziano dalla fiaba, consegni il cappuccio e non sei più nessuno.

Il fatto della perdita ha occupato tutto per mesi: testa, stomaco, le panchine del parco vicino casa dove andavo a rimuginare.

Mi sono ridestata dal torpore di quella vedovanza d’un botto, come cadono le mele dagli alberi sulle intuizioni degli scienziati e ho raccolto la mia, di intuizione, con frastornante stupore: potevo finalmente scrivere. Avevo in fondo un debito con quella parte di me che fino ad allora avevo lasciato uscire dopo il lavoro e soltanto quando avevo cucinato, badato alla famiglia e alla casa, lavato, stirato. E caricato di nuovo la lavatrice. Mi sono seduta alla scrivania e allora sì, OdB, ho fatto con volontà ferrea e sistematica, quello che mi avevi consigliato.

Ho scritto e scrivo. Ho trovato e trovo persone che mi leggono e mi apprezzano. È una gioia. Spero di trovarne sempre di più. E vado avanti: scrivo. Se scrivo, sono io.

Grazie, Oreste del Buono.

Un caro saluto,

Valeria De Cubellis

2 pensieri riguardo “Caro OdB

  1. Cara Valeria, infatti non possono licenziarci dal nostro mestiere, lo stesso se possono creare forme assurde di censura capaci di bloccare le opere artistiche prima del momento dell’arrivo al pubblico. Ho vissuto sotto una dittatura militare “occidentale” circa 21 anni e, nonostante la furia censoria paranoide che ci allontanava dai teatri e dalla media elettronica, non abbiamo deposto le armi un unico giorno. Anzi, la persecuzione ci ha portato a perfezionare i mezzi per fare arrivare ad un certo pubblico quello che facevamo. Chi ha una missione non può essere licenziato.

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    1. Caro Alberto, le tue parole sono particolarmente significative proprio perché giungono da chi ha vissuto e si è opposto all’esperienza da te descritta. E sono degne di ammirazione: la mia sicuramente. Grazie per il tuo contributo.

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